PUBLIO OVIDIO
qual plumbea cappa incombe. La squallida e nuda campagna
che, mentre tutto tace, vivente fantasma si aggira
per le romite strade che già del suo pianto ha bagnate.
si calma. Del poeta siccome quel mare è in tempesta
freme di sdegno e i lieti rimpiange bei giorni trascorsi.
il fiume in suo linguaggio? Che chiede al poeta? che vuole?
disperate di Ovidio il fiume forse ode e fa eco
ne la feroce Scizia, fra barbara gente per sempre.
brulicante di vivi, che passano come fantasmi!
di densa nebbia involve, sempre, anche quando il sole
un gran disco di fuoco lanciato nel vuoto profondo! –
canto di Roma antica, le glorie di Roma imperiale.
dormonp, i tomitani, sonni tranquilli: ei solo,
e parla alle aure, e al cielo il lento suo gemito giunge.
tutto ciò. che ‘l circonda, tutto quel che ode e tocca,
compiangono il suo fato i Numi finanche commossi.
di Ovidio ei le querele; sol egli, impassibile, aspetta
del sulmonese.[37] Mesto, silente, fra i boschi si aggira,
ed a la ricca casa, splendente di gusto e di lusso;
convegno[38] dal sorriso di Fabia gentile allietata.[39]
il cuor de l’incestuoso non soffre al lontano lamento
e di Perilla[40] ai baci! (O dolce figliuola, o vezzosa
potrai più di tuo padre il viso pallente baciare!)
di padre e di poeta, il triste suo cuore ferito.
la lettera fremente di teneri baci ricopre.
e Roma avita ne attende ansiosa il ritorno, soltanto
del vate. Egli soltanto non vuole, che torni. Dovunque
burberi sempre e vili, e sempre e dovunque tiranni!
quest’aria afosa e greve che soffoca e opprime – si geme
o cielo sorridente d’Italia! E ogni giorno che passa,
s’incanutisce, e tutto e tutto mi crolla d’intorno!
che mi dilania queste povere fibre, e il cervello
Ah, sarà eterno questo atroce supplizio, e mai requie
su l’anima anelante, invasa dal dubbio, turbata
Del vecchio amico Augusto, deh, alfine a pietà tu ti mova!
mi prostri un’altra volta ai Numi benigni dinanzi!
le vedo dileguare, e ormai m’han lasciato, mi sento
La patria mia diletta già mai rivedrò! L’infinito
Girovago, ramingo, io, preda d’un truce destino,
che a vivere mi danna dai cari miei monti lontano!
venga la morte almeno! Da tanto io la invoco e l’aspetto!
che uguagli la morte. Essa solo lenir può ogni umano dolore.
mi sentirò tranquillo, giocondo più assai che fra questo
che avvolge come nebbia la fosca mia vita, e il respiro
dal giorno in cui per sempre fui tolto a la patria diletta!
di fiori aulenti un giorno gli Amori gli cinser la fronte.
aspetta e invan lo sdegno cesareo calmar s
cielo che mai sorride, di lacrime irriga le smunte
l’estremo eterno sonno accanto a Falisca[42] leggiadra,
le voluttà supreme gli fece del senso gustare!
fossa ei preferirebbe a quella spelonca di vivi!
egli che Roma invitta qual patria un dì scelse adottiva?
firmando un editto di morte invece di quelle nefando
e da che vive ‘l mondo, i re furon sempre gli stessi,
burberi sempre e vili, e sempre e dovunque tiranni!
Di plangere deh cessa! Augusto i tuoi prieghi respinge.
or di pungenti spine cruenta corona t’intesse.
belve vestite d’oro che il volgo idolatra. Sii forte!
no, non prostrarti ai piedi di Cesare che ti disprezza!
negli agitati sogni, soltanto Giulia lenire
ma anch’ella è ne l’esiglio, anch’ella, d’Augusto scacciata,
ed ella, ella tei diede, dai canti conquiso immortali
monarca che la turba acclama dei sudditi ignavi.
a Livia ambizione, il fido tuo amico si diede
ti giungerà in esiglio il ramo d’olivo che attendi!
che alfin desista il rege dal turpe proposito. Invano!
pentametri Virgilio l’amico d’un tempo saluta,
il plauso primo, e, invano, ricorre ad Augusto protervo.
Ed anche, ed anche invano dal furbo Tiberio tu ansioso
leggerà indifferente, e al tuo sconfinato dolore
nel tuo gelido esiglio verrà finalmente a ghermirti!
Chi, o Publio, dirà l’elegia sul feretro triste? Tu gli occhi,
volumi, che compagni ti fur ne l’esiglio penoso.
l’ultima tua parola sarà per la patria: Ave, Roma!
vendicatore! Sia benedetto di Bruto il pugnale![47]
quando cadranno infranti i troni per sempre e i bugiardi
su le sudate carte e l’eco risponde: Ave, Roma!
36 Non per gli studiosi e le persone colte, ma perché questo libro sarà letto da molti lavoratori, i quali non ebbero l’opportunità d’imparare, do quì alcuni appunti concernenti la vita di Publio Ovidio Nasone e la sua vasta opera letteraria e poetica. Publio Ovidio Nasone, nacque a Sulmona (Abruzzi) 43 anni prima di Cristo, il 13 delle calende di Aprile, cioè a dire il 20 Marzo dell’anno 45 dell’Era volgare, 711 anni dopo la fondazione di Roma. Giovanissimo andò a Roma, dove studio l’ avvocatura. Ma, abbenchè addimostrasse singolari attitudini per la carriera forense, si diede, presto, anima e corpo alla poesia. Il primo suo successo letterario fu “Medea”, una tragedia di cui Quintiliano teneva gran conto. Scrisse in versi le “Epistolae” (lettere d’amore), gli “Amores” (gli amori) e il “Medicamena Faciei”, poema didascalico in cui insegna come conservare la bellezza del volto. I lavori che però lo resero immortale sono “Ars Amatoria”, le “Metamorfosi” e i “Fasti” in cui sta la glorificazione di Roma e della sua grandezza. Andò in esilio 9 anni dopo Cristo, a Temos e vi morì all’età di 59 anni, dopo 10 anni. Ovidio è il poeta romano che ha al proprio attivo la maggiore produzione letteraria, nella quale – appunto perciò – si deplora monotonia di soggetti e monotonia di cadenze. Il che non toglie ch’egli sorpassi tutti i poeti del ciclo Augustiano. ↩
37 Uno dei misteri della vita di Ovidio è l’esiglio al quale fu condannato da Augusto, chi dice per intrighi amorosi con Giulia, figlia dell’imperatore, chi per intrighi politici; certo è che la causa dovette essere grave, perchè nè egli vi accenna chiaramente, accontentandosi di alludervi solo in modo assai vago, né Augusto volle mai concedergli la grazia. Si noti che neanche Tiberio, succeduto ad Augusto, il quale, morì a Nola, l’anno 14 dell’Era Volgare, neanche Tiberio si commosse alle lodi e alle preghiere del poeta. ↩
38 La casa di Ovidio era uno splendore di lusso, di arte e di ospitalità. ↩
39 La terza od ultima moglie di Ovidio, donna di grande intelletto e di rara bellezza che fu la consolazione del poeta sulmonese. ↩
40 Perilla, unica figlia di Ovidio, sposa di due mariti e della poesia e madre di due figli, fu anch’essa una cultrice delle lettere e della poesia. ↩
41 Sono famose le lettere commoventissime scrittele dal padre nell’esiglio. ↩
42 Falisca fu la prima moglie di Ovidio. La sposò allorché, creato cavaliere, fu mandato in Atene, da dove passò in Asia Minore, per ritornare quindi in patria, dove fu fatto triumviro nell’anno 731 di Roma, poi centumviro e finalmente decemviro. ↩
43 Giulia, figliuola di Cesare, esiliata anch’essa per ordine dell’Imperatore. ↩
44 Si congettura che la Corinna che Ovidio canta principalmente nei suoi “Amori” fosse Giulia, figliuola di Augusto. ↩
45 Massimo, intimo di Ovidio e confidente di Augusto diede da sé stesso la morte, temendo che l’imperatore ad credesse responsabile della propagazione d’un segreto di Stato. ↩
46 Virgilio, Orazio, Properzio, Tibullo, Quintiliano, contemporanei di Ovidio e suoi amici, si adoperarono invano presso l’Imperatore, perchè gli fosse fatta la grazia. Come è noto, Augusto fu irremovibile e morì senza sodisfare il desiderio arditissimo del poeta e di quanti ne bramavano il ritorno in Roma. ↩
47 Si vuole che, negli ultimi anni del suo esilio, Ovidio, bramasse ardentemente che un secondo Bruto liberasse Roma dalla tirannia di Tiberio. ↩