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SINGHIOZZI E SOGGHIGNI: PUBLIO OVIDIO

SINGHIOZZI E SOGGHIGNI
PUBLIO OVIDIO
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Notes

table of contents
  1. I. Destruam et ædificabo.
    1. PRELUDIO
    2. SULL’OCEANO
    3. AD UN PEZZENTE
    4. GIURAMENTO MENDACE
    5. FINE D’AUTUNNO
    6. NATALE
    7. LETTERA AD EMMA
    8. ULTIMA SERA DI CARNEVALE
    9. XX SETTEMBRE
    10. A LA LIBERTÀ
    11. TRISTE NATALE
    12. INNO AL FANGO
    13. LE MIE SPERANZE
    14. AI VILI
    15. RESURREXIT
    16. POVERA BARCA!
    17. PRIMO MAGGIO
    18. AL MIO CORE
    19. A GESÙ
    20. DISINGANNI
    21. ANNO NOVO
    22. LA META
    23. EROS
    24. FEBBRAIO
    25. A FELICE CAVALLOTTI
    26. ALLA FELICITÀ
    27. A ERCOLE CANTELMO
    28. OCCHI NERI
    29. CARNEVALE
    30. LA NEVE
    31. RIMEMBRANZE DI NATALE
    32. FINE D’ANNO
    33. MACABRA
    34. LA MIA NONNA
    35. IL DUBBIO
    36. IL MIO CUORE
    37. ROMA
    38. A MIA SORELLA ROSINA
    39. TEDIO
    40. IL MISTERO DEL POETA
    41. LA RIVALE
  2. INTERMEZZO
    1. NELL’ALBUM DI ELEONORA DANTES
    2. QUARESIMALE
    3. AD ALARICO
    4. CHIACCHIERATA MATTUTINA
    5. A DIOGENE CHE PRENDERÀ MOGLIE.
    6. IN MORTE DEL SIGNOR.... 1901
    7. A LA MIA BEBÈ
    8. MASCHERE...
    9. PALINODIA... QUARESIMALE
    10. PULCINELLA REDIVIVO
    11. ALLELUJAH!
    12. LA FESTA DEL 20 SETTEMBRE A NEW YORK
    13. LE PROMESSE DEI CANDIDATI
    14. DEUS MEUS, DEUS MEUS, MISERERE PONTIFICIS!
    15. DOPO UNA FESTA DI BENEFICENZA
    16. PADRE MICHELE
    17. PALIZZOLEIDE
    18. STORNELLI PAPALI
    19. INNO A PALIZZOLO
    20. A CRISTOFORO COLOMBO
  3. III.
    1. L’AMICO TORNA
    2. È MORTO VERDI
    3. RENOVATIO
    4. GESÙ SUL CALVARIO
    5. ROSE
    6. IN MORTE DI CRISPI
    7. LA RISPOSTA
    8. MANI BIANCHE
    9. IL CANTO DI NATALE
    10. PORTAMI VIA...
    11. A MIO FRATELLO MARZIALE
    12. IN MORTE DI ZOLA
    13. A PIETRO MASCAGNI
    14. NEL CIMITERO DI MALDEN
    15. PUBLIO OVIDIO
    16. RUIT HORA!
    17. IL CANTO DI CARNEVALE
    18. IL RE E IL SUO FIDO SERVO
    19. SOGNO D’UN MATTINO D’INVERNO
    20. A LA MIA GIOVINEZZA
    21. GAUDEAMUS!
    22. INCUBO
    23. POVERO AMORE!
    24. L’ATTESA
    25. IN PLANCTU
    26. NOTTE FOSCA
    27. L’EREDE
    28. LIETO MESSAGGIO
    29. IL RITORNO
    30. LA REGINA DEI BOSCHI
    31. NOIA
    32. LA MIA VITA
    33. ODE BACCHICA
    34. ODE DOMESTICA

PUBLIO OVIDIO

Tomos orrida e tetra, da nuvole oscure coperta,[36]
dorme. Nessuna stella le tenebre fitte dirada
del getico orizzonte che su la città sconsolata
qual plumbea cappa incombe. La squallida e nuda campagna
mai si lugubre parve agli occhi del vate pensoso
che, mentre tutto tace, vivente fantasma si aggira
per i deserti e bui sentieri ch’ei solo conosce,
per le romite strade che già del suo pianto ha bagnate.
Ulula il mar feroce, il mare iracondo che mai
si calma. Del poeta siccome quel mare è in tempesta
l’anima esasperata, che, il tempo passato evocando,
freme di sdegno e i lieti rimpiange bei giorni trascorsi.
Brontola Ponto-Eusino. Che strane novelle racconta
il fiume in suo linguaggio? Che chiede al poeta? che vuole?
De l’esule la lunga querela forse ode, le strida
disperate di Ovidio il fiume forse ode e fa eco
al duolo del negletto che l’ira di Augusto proscrisse
ne la feroce Scizia, fra barbara gente per sempre.
– O la monotonia di questa necropoli algente,
brulicante di vivi, che passano come fantasmi!
O la monotonia di questa città, che un lenzuolo
di densa nebbia involve, sempre, anche quando il sole
brilla nel firmamento e pare un gran disco velato –
un gran disco di fuoco lanciato nel vuoto profondo! –
Così, piangendo, geme il triste poeta, che i fasti
canto di Roma antica, le glorie di Roma imperiale.
E mentre alta è la notte e tutti già in braccio a Morfeo
dormonp, i tomitani, sonni tranquilli: ei solo,
ei solo il suo dolore al mare e a la terra confida,
e parla alle aure, e al cielo il lento suo gemito giunge.
Ma il cielo, il mar, la terra, il vento, ogni cosa ch’ei vede,
tutto ciò. che ‘l circonda, tutto quel che ode e tocca,
hanno pietà di lui, pietà del suo immenso dolore;
compiangono il suo fato i Numi finanche commossi.
Sordo a ogni priego Augusto, è alieno egli solo; non sente
di Ovidio ei le querele; sol egli, impassibile, aspetta
che Morte col fatale suo marchio la bocca suggelli
del sulmonese.[37] Mesto, silente, fra i boschi si aggira,
Publio, che piange e implora, a Roma, pensando vetusta,
ed a la ricca casa, splendente di gusto e di lusso;
di dame e cavalieri, di vati e di artisti, ospitale
convegno[38] dal sorriso di Fabia gentile allietata.[39]
Soltanto il cuor di Augusto, non mai si commove, soltanto
il cuor de l’incestuoso non soffre al lontano lamento
di Publio, egro e pensoso, per sempre a la gloria involato
e di Perilla[40] ai baci! (O dolce figliuola, o vezzosa
fanciulla, prediletta a l’Arte e a le Muse, già mai
potrai più di tuo padre il viso pallente baciare!)
Egli ti scrive e in quelle epistole[41] è tutto il suo cuore
di padre e di poeta, il triste suo cuore ferito.
Egli ti scrive, e prima d’inviarti il suo cuor fatto a brani
la lettera fremente di teneri baci ricopre.
Ma mentre il bieco fato di Publio compiangono tutti
e Roma avita ne attende ansiosa il ritorno, soltanto
soltanto il fiero Augusto non cede a le suppliche e ai prieghi
del vate. Egli soltanto non vuole, che torni. Dovunque
e da che il mondo esiste, i re furon sempre codardi,
burberi sempre e vili, e sempre e dovunque tiranni!
***
– O questo fosco cielo, coverto di nuvole sempre,
quest’aria afosa e greve che soffoca e opprime – si geme
l’esule – oh, non più mai potrò rivederti, o bel cielo,
o cielo sorridente d’Italia! E ogni giorno che passa,
siccome un fiore si sfronda la grama mia vita, e il mio crine
s’incanutisce, e tutto e tutto mi crolla d’intorno!
E sarà eterno questo affanno che il sangue mi agghiaccia,
che mi dilania queste povere fibre, e il cervello
mi stringe, come dentro sinistro ordegno di morte?
Ah, sarà eterno questo atroce supplizio, e mai requie
non mi darà, mai requie il peso che grava da tanto
su l’anima anelante, invasa dal dubbio, turbata
sconvolta da un’immane angoscia che tutto mi avvince?!
Del vecchio amico Augusto, deh, alfine a pietà tu ti mova!
Il mite ciel di Roma, deh, fa ch’io riveda! Fa ch’io
mi prostri un’altra volta ai Numi benigni dinanzi!
Le rosee mie speranze svaniscono tutte! Ogni giorno
le vedo dileguare, e ormai m’han lasciato, mi sento
solo... (O cuor mio dolente, rassegnati al fato crudele!)
La patria mia diletta già mai rivedrò! L’infinito
affanno che mi strugge, m’ha reso un automa, una pianta!
Girovago, ramingo, io, preda d’un truce destino,
qui finirò i miei giorni, la sorte imprecando nemica,
che a vivere mi danna dai cari miei monti lontano!
Ma cessi, cessi almeno di battere il triste mio cuore!
venga la morte almeno! Da tanto io la invoco e l’aspetto!
Io credo che nessuna, nessuna dolcezza vi sia
che uguagli la morte. Essa solo lenir può ogni umano dolore.
E ne l’avello ignoto, (mi spenga la scitica freccia!)
mi sentirò tranquillo, giocondo più assai che fra questo
incessante e profondo squallore di cose e di umani,
che avvolge come nebbia la fosca mia vita, e il respiro
mi toglie. Oh, venga, venga la morte che invoco ed attendo
dal giorno in cui per sempre fui tolto a la patria diletta!
Così geme il negletto che ai Numi fu caro e di fiori
di fiori aulenti un giorno gli Amori gli cinser la fronte.
Così geme il dolente, che invano la grazia d’Augusto
aspetta e invan lo sdegno cesareo calmar s
Gelida l’aria il viso gli sfiora, e quel cupo guardando
cielo che mai sorride, di lacrime irriga le smunte
e scolorite guance, Potesse egli almeno dormire
l’estremo eterno sonno accanto a Falisca[42] leggiadra,
la cara e buona e dolce creatura che prima ad amarlo
le voluttà supreme gli fece del senso gustare!
Ella ora fredda giace nel muto sepolcro, ma quella
fossa ei preferirebbe a quella spelonca di vivi!
Perché geme in quell’antro selvaggio, fra barbari intonsi,
egli che Roma invitta qual patria un dì scelse adottiva?
Chi vel condusse? Umano Augusto sarebbe più stato,
firmando un editto di morte invece di quelle nefando
che Publio condannava e esiglio perpetuo! Dovunque
e da che vive ‘l mondo, i re furon sempre gli stessi,
avidi di vendetta, di sangue assetati, codardi,
burberi sempre e vili, e sempre e dovunque tiranni!
***
O Publio, o Publio smetti di chieder perdono a l’iniquo!
Di plangere deh cessa! Augusto i tuoi prieghi respinge.
Augusto in Campidoglio d’alloro ti die una ghirlanda,
or di pungenti spine cruenta corona t’intesse.
Muori da prode simeno! Non piangere!... I re son dovunque
belve vestite d’oro che il volgo idolatra. Sii forte!
Chi l’anima ha sdegnosa, non teme, non piange, non prega!
no, non prostrarti ai piedi di Cesare che ti disprezza!
Giulia,[43] soltanto Giulia, che vaga Corinna,[44] ti appare
negli agitati sogni, soltanto Giulia lenire
il dolor tuo potrebbe, che acerbo ti strazia e ti rode;
ma anch’ella è ne l’esiglio, anch’ella, d’Augusto scacciata,
geme in extraneo lido, che il cuor le chiedesti nei canti
ed ella, ella tei diede, dai canti conquiso immortali
O Publio, o Publio, cesse di chieder perdono a l’imbelle
monarca che la turba acclama dei sudditi ignavi.
Di Massimo[45] il segreto tu, incanto, svelasti. Imprecando
a Livia ambizione, il fido tuo amico si diede
la morte, e tu ‘l piangesti. O Publio, d’Augusto già mai
ti giungerà in esiglio il ramo d’olivo che attendi!
Per te Orazio intercede. Umile, egli, prega e scongiura
che alfin desista il rege dal turpe proposito. Invano!
Per te Tibullo piange in flebili distici, in soavi
pentametri Virgilio l’amico d’un tempo saluta,
e la “Medea” ricorda, la cara “Medea” che ti diede
il plauso primo, e, invano, ricorre ad Augusto protervo.
Tutti respinge Augusto.[46] O Publio, non più lo pregare!
Ed anche, ed anche invano dal furbo Tiberio tu ansioso
la grazia attenderai. Anch’egli, beffardo, i tuoi carmi
leggerà indifferente, e al tuo sconfinato dolore
sogghignerà... E la Parca, la pallida Parca, o poeta,
nel tuo gelido esiglio verrà finalmente a ghermirti!
Chi spargerà dei fiori sul tuo desolato sepolcro?
Chi, o Publio, dirà l’elegia sul feretro triste? Tu gli occhi,
tu gli occhi stanchi, o Publio, alfin chiuderai sui tuoi cari
volumi, che compagni ti fur ne l’esiglio penoso.
E su le bianche carte, il candido capo chinando
l’ultima tua parola sarà per la patria: Ave, Roma!
Ave, Ave, Roma, e sia laudato il pugnale di Bruto
vendicatore! Sia benedetto di Bruto il pugnale![47]
Chè allora sarà il mondo lavato da tutte le infamie
quando cadranno infranti i troni per sempre e i bugiardi
idoli atterrati. Reclina la testa il morituro
su le sudate carte e l’eco risponde: Ave, Roma!

New York 26 Novembre 1903.

36 Non per gli studiosi e le persone colte, ma perché questo libro sarà letto da molti lavoratori, i quali non ebbero l’opportunità d’imparare, do quì alcuni appunti concernenti la vita di Publio Ovidio Nasone e la sua vasta opera letteraria e poetica. Publio Ovidio Nasone, nacque a Sulmona (Abruzzi) 43 anni prima di Cristo, il 13 delle calende di Aprile, cioè a dire il 20 Marzo dell’anno 45 dell’Era volgare, 711 anni dopo la fondazione di Roma. Giovanissimo andò a Roma, dove studio l’ avvocatura. Ma, abbenchè addimostrasse singolari attitudini per la carriera forense, si diede, presto, anima e corpo alla poesia. Il primo suo successo letterario fu “Medea”, una tragedia di cui Quintiliano teneva gran conto. Scrisse in versi le “Epistolae” (lettere d’amore), gli “Amores” (gli amori) e il “Medicamena Faciei”, poema didascalico in cui insegna come conservare la bellezza del volto. I lavori che però lo resero immortale sono “Ars Amatoria”, le “Metamorfosi” e i “Fasti” in cui sta la glorificazione di Roma e della sua grandezza. Andò in esilio 9 anni dopo Cristo, a Temos e vi morì all’età di 59 anni, dopo 10 anni. Ovidio è il poeta romano che ha al proprio attivo la maggiore produzione letteraria, nella quale – appunto perciò – si deplora monotonia di soggetti e monotonia di cadenze. Il che non toglie ch’egli sorpassi tutti i poeti del ciclo Augustiano. ↩

37 Uno dei misteri della vita di Ovidio è l’esiglio al quale fu condannato da Augusto, chi dice per intrighi amorosi con Giulia, figlia dell’imperatore, chi per intrighi politici; certo è che la causa dovette essere grave, perchè nè egli vi accenna chiaramente, accontentandosi di alludervi solo in modo assai vago, né Augusto volle mai concedergli la grazia. Si noti che neanche Tiberio, succeduto ad Augusto, il quale, morì a Nola, l’anno 14 dell’Era Volgare, neanche Tiberio si commosse alle lodi e alle preghiere del poeta. ↩

38 La casa di Ovidio era uno splendore di lusso, di arte e di ospitalità. ↩

39 La terza od ultima moglie di Ovidio, donna di grande intelletto e di rara bellezza che fu la consolazione del poeta sulmonese. ↩

40 Perilla, unica figlia di Ovidio, sposa di due mariti e della poesia e madre di due figli, fu anch’essa una cultrice delle lettere e della poesia. ↩

41 Sono famose le lettere commoventissime scrittele dal padre nell’esiglio. ↩

42 Falisca fu la prima moglie di Ovidio. La sposò allorché, creato cavaliere, fu mandato in Atene, da dove passò in Asia Minore, per ritornare quindi in patria, dove fu fatto triumviro nell’anno 731 di Roma, poi centumviro e finalmente decemviro. ↩

43 Giulia, figliuola di Cesare, esiliata anch’essa per ordine dell’Imperatore. ↩

44 Si congettura che la Corinna che Ovidio canta principalmente nei suoi “Amori” fosse Giulia, figliuola di Augusto. ↩

45 Massimo, intimo di Ovidio e confidente di Augusto diede da sé stesso la morte, temendo che l’imperatore ad credesse responsabile della propagazione d’un segreto di Stato. ↩

46 Virgilio, Orazio, Properzio, Tibullo, Quintiliano, contemporanei di Ovidio e suoi amici, si adoperarono invano presso l’Imperatore, perchè gli fosse fatta la grazia. Come è noto, Augusto fu irremovibile e morì senza sodisfare il desiderio arditissimo del poeta e di quanti ne bramavano il ritorno in Roma. ↩

47 Si vuole che, negli ultimi anni del suo esilio, Ovidio, bramasse ardentemente che un secondo Bruto liberasse Roma dalla tirannia di Tiberio. ↩

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